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«Abbiamo lottato per la libertà, ora però è giusto obbedire alle regole»

La partigiana combattente oleggese Nini, Costanza Arbeja, che ha vissuto la Seconda guerra mondiale, lancia un messaggio per questo momento tanto particolare e ricorda il suo 25 aprile, "anzi il mio è stato il 24 aprile"

«In quell’epoca abbiamo lottato per la libertà, ma una libertà che in certi casi è giusto abbia un limite, se le ragioni sono giuste dobbiamo anche saper obbedire. E ora è giusto così». Genuina, diretta, il suo messaggio è sempre limpido e chiaro.

«In quell’epoca? Si può dire che tutto fosse manuale. Oggi dobbiamo ringraziare i ricercatore che stanno studiando, io dopo la guerra mi sono specializzata in Chimica e se fossi in grado cercherei ancora di fare qualcosa, quindi chi può aiuti. Bisogna rispettare le regole per evitare che qualcuno possa infettarsi, stare chiusi in casa è la soluzione giusta, anche per chi era tanto abituato ad andare a passeggio, altrimenti la pandemia non finisce più. Forse, leggendo i giornali, mi viene a dire che avremmo potuto iniziare prima, ma ora accettiamo la realtà e fidiamoci di chi ci dirige con buona capacità per il bene degli italiani». Sono le parole della Nini, Costanza Arbeja, oleggese classe 1926, partigiana combattente.

 

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Nini, il nome che le era stato affidato da partigiana, lo ricorda bene il suo 25 aprile 1945, anzi 24 aprile: «Per me il giorno della liberazione è il 24 aprile. Quel giorno ero andata a Lonate Pozzolo per gli ordini e per sapere che cosa si diceva, al ritorno prendo la mia strada Novara-Varallo e vedo una colonna che si dirige verso Novara e mi dicevo “Stavolta è finita davvero”.

Sono arrivata al comando ma erano tutti a Borgosesia così ci sono andata anche io, con la mia bici, una superleggere in alluminio che mi avevano dato dal comando e che mi consentiva di muoversi a 25/28 km all’ora. A Borgosesia ho visto il ristorante, era tutto rotto, – la sua voce interrompe un attimo – poi sono andata a Borgosesia in caserma per presentarmi, perché giravo con documenti falsi.

Non mi hanno più lasciato andare, ho dormito lì: temevano che i fascisti ancora presenti in paese mi avrebbero fatto fuori. Il mattino dopo, 25 aprile, mi hanno portato alla Perrone a difendere la gente nascosta, ero l’unica donna a saper usare la rivoltella. Per me era un onore fare questo. Avrei dovuto festeggiare il 16 marzo, ma gli Americani non era vero che ci aiutavano. Per cui ci è voluto un po’ più tempo ma il giorno è arrivato».

Arbeja è stata partigiana da subito: «Sono cresciuta in una famiglia con questa cultura, c’era la politica del duce, di dittatura e quindi vedevo partire i militari che combattevano con i tedeschi in Russia, avevamo un ristorante in stazione. I tedeschi avevano già occupato diversi spazi e allora prima c’è stata una resistenza un po’ nascosta, la popolazione era stanca di una dittatura fatta con forza e senza paura e così nel 1943 tutta la mia famiglia ha aderito al movimento Resistenza al fascismo». E la scelta di diventare partigiana combattente: «E’ stato il 22 dicembre, davanti alla chiesa di Sant’Antonio hanno ammazzato i miei amici, un ragazzino di 15 anni e tre anziani. Non era più possibile rimanere nascosti».

La Nini ha preso parte alla lotta partigiana sia come crocerossina, sia nelle operazioni militari, nelle formazioni partigiane della “Nello” e in distaccamenti vari, anche quando il regime ha messo poi in carcere tutta la sua famiglia.

Nel gennaio 1945 le è stato affidato un compito particolare, entrare a far parte del Cip, il Centro informazioni partigiane: «Da Fobello sono scesa, ho dormito a Quarona sul fienile, poi sono andata a Lozzolo, poi a Ghemme al comando di polizia. Da allora ho girato con documenti falsi.

Andavo a vedere cosa succedeva, raccoglievo informazioni, ricordo la pasticceria Ricciarelli a Novara dove prendevo le buste, ricordo le visite alle famiglie dei caduti, una volta ho portato una busta con dei soldi a una famiglia, ho detto che il marito era rimasto ferito, la conversazione è durata almeno dieci minuti, poi ho abbracciato la moglie e all’orecchio ho detto che il marito era morto. Mi emoziono ancora a dirlo». Storia, quella con la S maiuscola raccontata da Costanza Arbeja. Una storia dettagliata, che chiudendo gli occhi sembra di vivere o rivivere davvero.


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